Non elimino i vecchi messaggi da whatsapp per un misto di pigrizia e paura di perdere qualcosa di importante (quasi sempre mal riposta). Mi secca l’idea di cancellare massivamente: ci sono foto, scambi e link che vorrei conservare.

Frugare tra le immagini è relativamente facile, quindi lo faccio di tanto in tanto per ripescare una cosa che mi serve. Raramente invece rileggo, perché per trovare un messaggio servono memoria e una certa fortuna con la funzione di ricerca.

Potrei fare una cernita e cancellare le cose irrilevanti («sto arrivando!»), per conservare solo quelle che mi sembra abbiano più valore. Ma appunto: la pigrizia. E il tempo, che può essere impiegato meglio. In generale: sticazzi.

In ogni modo: a riguardarli, gli scambi che sono andati accumulandosi nel mio telefono prima della pandemia avevano quasi tutti una loro forma di coerenza.

A volte erano anticipati da più convenevoli («Ehilà!»); altre volte erano più diretti («Mi mandi…»). Ma erano comunque, nella gran parte dei casi, messaggi circostanziati («Ho una domanda…»), oppure autoesplicativi: un meme, una foto. Oppure ancora erano «Sto arrivando»: magari non so a cosa stessi arrivando, ma il messaggio di per sé dà un’idea del contesto.

E invece adesso lo smartworking riempie le tue conversazioni, soprattutto quelle con i colleghi, di una diversa forma di messaggi: quelli scambiati nello stesso momento in cui condividete un altro contesto, per esempio una call di lavoro, e che hanno senso solo se abbinati a qualcosa che sta succedendo altrove.

Metti che l’ultimo vostro scambio risale a domenica, quando vi eravate augurati una buona serata dopo un breve dibattito su un film. Poi silenzio assoluto fino a martedì quando oplà, all’improvviso, poco prima di mezzogiorno,

Chissà cosa non capiva. Chissà se poi ha capito, se hai capito tu, se vi siete raccapezzati. In questo mio caso specifico, dai messaggi successivi non è chiaro: siamo passati ad altro. Potrei guardare il calendario o gli appunti e cercare di ricostruire contesto e argomento. Ma anche qui, ovviamente, sticazzi.

Non è un fenomeno inedito né così significativo: lo facevamo anche in alcune riunioni in presenza (molto più raramente e più sottobanco). E i messaggi privati in stile live-tweeting non sono una novità: li usiamo da anni per commentare festival, programmi tv e crisi di governo.

Ma ho il sospetto che nel 2020 il mio telefono abbia pazientemente accumulato una quantità ben più numerosa di scambi di questo genere, deframmentando ancora di più la storia delle mie conversazioni digitali. E che abbia dato un altro colpo di grazia (se ne può dare più d’uno?) al desiderio romantico di tenere insieme in un posto (o anche solo di ripercorrere) il senso delle cose che ci siamo scritti con il resto del mondo.

(Ho cercato per un po’, senza successo, un post (credo) di Luca Sofri in cui (credo) scriveva del problema delle fonti all’epoca dei blog e dei social network. Un’indagine sulla vita di chiunque, oggi, significherebbe affrontare decine di migliaia di cose scritte qui e là: post, tweet, interviste. E se una volta lo studioso poteva sperare di recuperare e governare tutte le cose scritte da qualcuno e ancora disponibili, oggi è un’impresa impossibile, al pari di quella di selezione. Anche un’autobiografia, se volessimo rileggere il nostro stesso passato per ricordarci di qualcosa, ci costringerebbe a un lavoro di tediosa lettura di infinite conversazioni inutili e incomprensibili: alla ricerca di quell’unico scambio su cui invece vorremmo rinfrescare la memoria. Neanche il più perverso grafomane epistolare ottocentesco avrebbe immaginato la mole di inutilità di cui ci stiamo circondando e in cui anneghiamo le poche cose rilevanti che ci scriviamo.)

Ps. Lettura vagamente correlata, molto vivamente consigliata, è questo post di Giorgio Fontana.

Pps. Non rileggerò quei messaggi; non li avrei riletti comunque. Non è un fenomeno preoccupante né rilevante. Ma lo trovo un curioso precipitato nascosto dello smartworking. In fondo, è un altro dei casi in cui gli utenti adattano uno strumento a un uso non previsto da chi l’ha creato — vedi il successo di Netflix Party, a cui le stesse aziende di streaming si sono di corsa adattate. È un altro leggero spostamento del ruolo che diamo agli strumenti di comunicazione da cui siamo circondati, alla loro missione di contenitori, alla loro immediatezza e gratuità.